lunedì 9 luglio 2007

venerdì 6 luglio 2007

Disegni







Il bello assoluto

Lo sfociare dello Sturm und Drang (la prorompente corrente preromantica tedesca), o almeno dei suoi più grandi personaggi, nella superiore compostezza del neoumanesimo o neoclassicismo non è fenomeno particolare della cultura tedesca ma va inserito nel contesto europeo della seconda metà del '700 e dell'età napoleonica, pervaso da una grande corrente culturale, artistico-figurativa e letteraria, che si richiamava all'antico: il Neoclassicismo. Esso aveva ricevuto vivo impulso dalle ricerche degli archeologi, soprattutto dopo le sensazionali scoperte degli scavi di Pompei e di Ercolano (1748) e dopo la pubblicazione della Storia dell'arte dell'antichità di Gioacchino Winckelmann, grande archeologo tedesco che, attraverso lo studio metodico delle arti antiche, aveva teorizzato la perfezione dei capolavori greci e dell'arte fidiaca rispetto a qualsiasi altra opera di qualsiasi altro tempo. Egli aveva così fissato un canone ideale eterno della bellezza, il Bello assoluto, connotato da "nobile semplicità" e "tranquilla grandezza" come le statue elleniche. Tale nozione del Bello assoluto va oltre la realtà naturale.
Francesco Milizia, teorico italiano del neoclassicismo, afferma:
"Bello ideale è la riunione delle parti più belle scelte dagli individui più belli. La natura non dà mai un tutto perfettamente bello: frammischia sempre fra le parti belle altre meno belle e anche delle brutte o per eccesso o per difetto. L'artista sceglie le più belle e ne fa un tutto compiutamente bellissimo. Questo è il bello ideale".
Forte fu l'influsso in Italia del Winckelmann e del pittore boemo neoclassico Raffaello Mengs: ad essi si ispirarono correnti di pittura, scultura ed architettura neoclassica (ad es. Canova) e scritti teorici (ad es. Milizia). Nasce così il mito dell'Ellade, tanto che già i Latini vengono considerati decadenti rispetto alla suprema arte greca; tuttavia c'è difficoltà di ricezione, se non addirittura rifiuto, per ovvi motivi, di questa parabola da parte di molti letterati italiani (anche se le Grazie del Foscolo la ripropongono).
Il diffondersi di questo gusto in tutta Europa si spiega anche per motivi politici: c'è rispondenza con la rivoluzione francese, i cui sostenitori erano stati fervidi ammiratori dei classici, storici e moralisti greci e romani (Plutarco, Tacito, Livio), che avevano nutrito il loro culto per la libertà e il loro odio per la tirannide; inoltre, il neoclassicismo, per una certa tendenza all'evasione e al disimpegno che lo caratterizzò negli animi più superficiali, fu protetto da Napoleone, che invece osteggiò il romanticismo nazionalistico e individualistico.
Il grande Neoclassicismo europeo, comunque, fu soprattutto quello di un Hölderlin in Germania, un Keats o uno Shelley in Inghilterra, uno Chénier in Francia o un Foscolo in Italia, che guardarono all'insegnamento del Winckelmann realizzandolo nella sua aspirazione più profonda, e cioè la nascita di un'arte che non imitando quella greca ma operando come quella, ritraesse non genericamente la natura ma "certe bellezze ideali di essa", prendendo "la via del bello universale e delle sue immagini ideali", così da conseguire una "quieta grandezza, come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie".
E allora vediamo che questa tensione verso una bellezza ideale che fosse tutt'uno con la verità e l'essenza del mondo è profondamente vicina alla spiritualità romantica, con cui ha in comune:
* il sentimento potente di una natura primitiva, seppure per i neoclassici più elegante e raffinata che non sublime
* il ripudio del regolismo aristotelico, insufficiente di fronte alle divine proporzioni dell'arte greca o all'altezza dei modelli letterari greci
* l'ansia turbata, inquieta e commossa, vicina allo Streben goethiano, seppur raddolcito, che guida la ricerca della bellezza ideale
Così, quando, nei suoi momenti più ispirati, l'artista neoclassico sembra trascendere la parvenza illusoria delle cose e tendere verso un assoluto eterno e segreto, il suo atteggiamento non è molto distante da quello di un romantico.

mercoledì 4 luglio 2007

Poesie

LENTAMENTE
Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, il colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità
( Pablo Neruda )
SONETTO 21
Io non sono come quella Musaispirata alla poesia da bellezze artefatte,che usa come ornamento il cielo stessoed ogni beltà compara al suo splendore,raggruppando in solenni paragonisole, luna, terra e del mar le ricche gemme,i primi fiori dell'Aprile e quanto di preziosoracchiude il firmamento in questa immensa volta.Onesto in amore, permettete ch'io scriva il veroe poi credetemi, il mio amore è bello quanto il figlio di ogni madre, anche se non brillacome quei lumi d'oro fissi nel firmamento:lasciate esagerare chi ama frasi di grande effetto;io non vanterò chi non intendo vendere.
(William Shakespeare )

martedì 3 luglio 2007

Saverio e il Collegio universitario

I primi anni a Torino ho vissuto nel Collegio universitario di Via Galliari ( http://www.collegioeinaudi.it ). Ore interminabili di studio e di divertimento e di mille esperienze. Li ho conosciuto persone che ogni tanto ritrovo, ma sopratutto ho scoperto persone come Tony e Paola.
Cosa che mi ha sempre impressionato e reso molto orgoglioso il fatto che Umberto Eco ha frequentato il mio collegio. Chissa se ha dormito nella mia stessa camera.
GLI ANNI DI VIA GALLIARI di UMBERTO ECO
(testimonianza tratta dal volume “Evoluzione di un progetto, 1935-1985: Cinquant’anni di servizio agli studenti”, a cura di Nelly Darbesio Micheletti, Stamperia Artistica Nazionale, Torino, 1988)

Non ricordo se il Collegio chiudeva inesorabilmente alle 11,30 o a mezzanotte. Ricordo che chiudeva. Ricordo anche di qualcuno che si ruppe una gamba cercando di rientrare per mezzo di lenzuola annodate, calategli da una finestra del primo piano. I più raffinati sistemi di evasione, elaborati dalla criminalità negli anni seguenti, non erano ancora a nostra conoscenza. Sta di fatto che io ero appassionato di teatro e potevo vedermi al Carignano il meglio della drammaturgia antica e moderna passando cinquanta lire al capo claque, per cui nei quattro anni di permanenza all’università ho visto, credo, il meglio. Con una limitazione: le rappresentazioni finivano di solito all’ora in cui il Collegio chiudeva, quindi dovevo uscire sempre dieci minuti prima del finale e correre come un pazzo per trovare ancora aperta la porta di via Galliari.
Per questo io non ho mai saputo se Amleto sia morto, come se la sia cavata Edipo, chi sia la signora ponza, se Osvaldo abbia o non abbia avuto il sole, se Stanis Kowalsky si sia riappacificato con Stella, se Enrico IV sia rinsavito. Morirò con questi interrogativi sulle mie labbra esangui.
E tuttavia sarei disposto a rinunciare alla rivelazione finale per rivivere gli anni del Collegio Universitario. Essi hanno lasciato su di me tracce profonde. Per esempio ancora oggi sono incapace di ordinare in un ristorante cotoletta alla milanese, vitello tonnato e tonno sott’olio. Chi ha la mia età lo sa (forse dopo le cose sono cambiate): se si arrivava presto alla mensa si aveva la cotoletta o il vitello tonnato, se tardi solo il tonno. Io arrivavo sempre tardi ed ho mangiato tonno per quattro anni. Odio il tonno. Ma anche la cotoletta e il vitello tonnato.
C’erano, è vero, le uova. Ma si sospettava fossero conservate. Gli studenti che venivano dalla campagna portavano le uova fresche in cucina, ma la diceria corrente era che un cuoco infido le metteva da parte per sé, e buttava in padella l’uovo conservato. Per ottenere la verità, con l’aiuto dei compagni delle facoltà scientifiche, dopo aver succhiato tuorlo ed albume da un uovo fresco, lo riempivamo d’inchiostro, con una siringa, indi il buco veniva otturato con cera. Poi si portavano le uova incriminate in cucina. Dopo poco arrivavano in tavola squisite uova al burro (conservate). Si mangiava pregustando quello che sarebbe avvenuto quando il cuoco avesse finalmente rotto le uova inquinate in una bella e sfrigolante padella riservata al tavolo della direzione.
Ma sono dolci ricordi, e infine il ricordo più forte è un ricordo di libertà e cordialità: il vincolo della chiusura notturna e gli incidenti in mensa erano compensati dal fatto che per il resto eravamo liberi. Persino l’attenta azione poliziesca del nostro “tutor”, l’indimenticabile dottor Fava, non riusciva ad impedire che nel colmo della notte avvenissero raids ferocissimi nei confronti delle matricole. Il dottor Fava pensava solo in termini scientifici. Quando ci fu una inchiesta per sapere se effettivamente si era introdotta una candela tra le natiche di una matricola, per indurla a cantare “noi siam come le lucciole”, il dottor Fava, con mente matematica, chiese chi aveva operato “sopra i due geoidi”. Quando gli ingegneri gli tracciarono un diagramma per mostrare che lo sfintere di una matricola coricata sul letto configurava un angolo di 45 gradi con il piano del letto, e quindi non poteva essere stato violato da una candela che, per emettere luce di lucciola, avrebbe dovuto configurare col piano orizzontale un angolo di novanta gradi – e che pertanto la candela era solo blandamente appoggiata sui “geoidi” e sostenuta dalla mano complice della matricola – il dottor Fava si arrese all’evidenza scientifica.
Ma via Galliari non è stata solo un’esperienza di goliardia. In verità la goliardia era ormai in crisi già in quegli anni, e non ne facevamo un’ideologia. Si trattava solo di passare in qualche modo le ore da mezzanotte alle due, specie per coloro che non potevano andare a dormire perché i compagni misericordiosi avevano loro smontato la stanza, ricostruendo il tutto secondo stili volta a volta diversi (surrealista, neo-costruttivista, assiro babilonese e simili). Per il resto via Galliari era un centro di vita intellettuale, ore e ore passate nella camera di un amico a discutere di musica, dei libri letti, dei film da vedere e gli ingegneri discutevano coi medici e coi filosofi, e si parlava di politica, di arte, qualcuno imponeva persino la lettura delle proprie poesie, ma pazienza, nel ricordo sono belle anche quelle. Poi ci si stancava di parlare, e si invitava l’amico a un incontro di lotta libera, rotolando dal letto e avvinghiandoci con prese da cintura nera, facendo cadere la lampada, sino a che quelli della stanza vicina arrivavano e scaraventavano sui contendenti un secchiello d’acqua. Molti di coloro tenteranno oggi di negare, perché ormai sono onorati baroni universitari, o dirigenti di grandi aziende, ma il passato non si cancella.
Tutti sanno di quel carissimo amico, che chiamerò X, severo studioso sin d’allora, che ebbe solo una debolezza. Siccome, oltre al posto in via Galliari, aveva vinto anche una borsa del Real Collegio Carlo Alberto, collegio di grandi tradizioni storiche, ma che non esisteva più se non come nome, e conferiva borse annuali con cui si poteva al massimo andare qualche volta al cinema, per trar partito da quella dignità che non dava alcun pane, egli si fece stampare dei biglietti da visita dove, sotto il nome, stava scritto “Membro del Real Collegio Carlo Alberto”. I biglietti furono scoperti, alterati e ridistribuiti a tutti gli ospiti di via Galliari con l’aggiunta “e coglione del C.U.”. Risultato: X è ora una persona che ha fatto una luminosa carriera e occupa posti di grande responsabilità, ma tutti gli anziani degli anni Cinquanta, quando chiedono affettuosamente sue notizie, ancora lo designano come “Il Membro”.
Avrei tanti altri ricordi. Alcuni non sono solo ricordi, sono amicizie che non si sono mai interrotte. Ripensandoci bene, eravamo persone molto serie, e lavoravamo con molto rigore. Se facevamo follie notturne, e qualcuna diurna, era perché il resto del tempo si studiava. E mi rimane la nostalgia di tante notti, passate al tavolino, con l’unica lampada della stanza, che al momento di andare a dormire doveva essere staccata e ricollegata alla presa vicino al comodino da notte, e per questo non si andava mai a letto, e si continuava a studiare, o a scrivere opere d’arte poi perdute, tenendo a basso volume una radiolina comprata a rate con cambiali, e ascoltando le stazioni notturne per le truppe americane in Germania, o radio Lussemburgo – e ancora oggi quando sento una di quelle melodie mi commuovo, e mi ricordo talora della pagina precisa di Spinoza, di Locke o di Kant su cui stavo sudando con la matita mentre l’ascoltavo.

lunedì 2 luglio 2007